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DALL’HATE SPEECH AL REALITY SHOW DELLA SCIENZA: UNA BUSSOLA PER ORIENTARSI NELL’INFORMAZIONE CHE CAMBIA

martedì 14 luglio 2020

Incontro con Walter Quattrociocchi e Giovanni Ziccardi “False verità e odio online”

di Silvia Giralucci

 

L’avvento di Internet, e soprattutto dei social network, ha facilitato l’accesso a una grande massa di informazioni senza mediazioni e ha reso possibile un dialogo ininterrotto. Tuttavia questa iper-connessione sta producendo una disinformazione pericolosa, trasformando la verità in un concetto labile e sfuggente, concedendo spazio ad espressioni di odio razziale e politico, offese, molestie, bullismo e altre forme di violenza.

Nell’ambito del ciclo di webinar “Gli Orizzonti della Salute. Ricerca, tecnologia, informazione per guardare oltre il 2020”, organizzato in collaborazione con il Giornale di Vicenza, vi forniamo una piccola bussola per orientarsi nell’informazione che cambia, a partire dal dialogo tra il direttore generale di Fondazione Zoé, Mariapaola Biasi, con Walter Quattrociocchi, docente di Scienze Informatiche all’Università Cà Foscari di Venezia e direttore del laboratorio di Data Science and Complexity, e con Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica dell’Università degli Studi di Milano.

 

Il successo delle fake news

“Dobbiamo mettere in discussione – spiega Quattrociocchi – il concetto stesso di fake news, nonostante sia tanto in voga. Ci stiamo illudendo che esista la possibilità di ripartire il mondo in vero o falso, ma è un’illusione. In realtà molte persone sono interessate solo alle informazioni che servono a corroborare posizioni già preconcette. Si chiama ‘pregiudizio di conferma’: si ricercano informazioni che supportano la propria visione del mondo e si ignorano le informazioni a contrasto. E se qualcuno prova a contraddirle si arrabbiano, con un esito di sustanziazione e radicalizzazione del credo pregresso.”

Il meccanismo tribale della conoscenza

“Nonostante sia aumentata la quantità di fonti a disposizione – prosegue Quattrociocchi- il nostro apparato cognitivo, il cervello, è rimasto un apparato che, come ai tempi in cui l’uomo viveva nella savana, cerca di consumare meno energia possibile e cerca di creare comfort zone. Quindi, dopo un po’ di esplorazione, ciascuno di noi, si fidelizza su alcune fonti e rimane lì perché trova un sodalizio con persone che la pensano allo stesso modo. In pratica, si struttura un meccanismo tribale. In questo le piattaforme come i social network hanno una responsabilità perché l’algoritmo contribuisce alla tribalizzazione. Il pluralismo dell’informazione è rimasto, il problema è che è cambiato il business model.

Fact – checking contro le fake news

“Purtroppo nella miriade di informazioni a disposizione nel supermercato dell’informazione – dice Quattrociocchi – dove ciascuno trova ciò che più piace per gusto, terminologia, linguaggio e narrazione, domina il relativismo assoluto. In questo contesto il fact-checking non funziona contro le fake news, smentirle non serve a smontarle. Perché se io credo che la terra sia piatta e qualcuno mi porta delle evidenze empiriche che non lo è, io quella informazione neppure la vedo perché non è un’area del supermercato che mi interessa, e se proprio mi ci spingono dentro, nella maggior parte dei casi mi arrabbio. Questo è ciò che fece chiudere la rubrica del debugging del Washington post perché di fatto dava solo maggiore visibilità alle notizie che voleva smentire. Disinformazione e fake news esistono, ma sono solo un effetto emergente di un cambiamento radicale che è avvenuto nel business model della produzione dell’informazione”.

Vietare l’hate speech? Il difficile confine con la libertà di espressione

“Bisogna distinguere – afferma Giovanni Ziccardi – tra l’istigazione all’odio e le espressioni d’odio. Il dialogo d’odio è tendenzialmente ammesso in quasi tutti gli ordinamenti, dove si interviene per proteggere la dignità delle persone e la reputazione con reati come la diffamazione. L’istigazione all’odio, cioè l’indurre più persone a odiare soprattutto minoranze è invece un problema sociale e tutti gli ordinamenti hanno interesse a intervenire. Dalla Seconda Guerra mondiale sono usciti tre tipi di odio: l’odio politico, l’odio religioso e l’odio nei confronti delle minoranze. A questi, dalla metà degli anni Ottanta si è aggiunta l’omofobia. Tra le nuove forme possiamo citare anche l’odio nei confronti delle donne. È giusto che si cerchi di normare queste forme di odio sociale: il problema è il limite tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela dall’odio. Quando parliamo di reati di opinione il confine tra il disciplinare correttamente e il censurare certe espressioni è molto labile. Nei reati come stalking e cyberbullismo l’ordinamento reagisce per tutelare le persone, mentre l’istigazione all’odio nei confronti delle minoranze è un problema più sottile, un problema sociale”.

Le responsabilità dei social network

“Non sono convinto – afferma Ziccardi – che le piattaforme abbiano la responsabilità principale nella diffusione dell’odio online, sono certamente il soggetto più visibile. Le piattaforme sono lo specchio della società. Se il mondo della politica, della stampa sono caratterizzate da toni d’odio e contribuiscono a veicolare fake news è chiaro che questo si riflette sulle piattaforme. Poi è chiaro che nelle piattaforme possono esserci modalità di intervento diverse che nella società: moderazione, regole interne…  Le questioni da affrontare sono: l’educazione, l’aspetto tecnologico con un filtraggio efficace dei contenuti e l’intervento del diritto, evitando la censura”.

Infodemia e il reality show della scienza con la crisi del Covid-19

L’infodemia è l’eccesso di informazioni in momenti di emergenza. “Con l’emergenza del Covid 19 – spiega Quattrociocchi – abbiamo scoperto il reality show della scienza. È arrivato all’attenzione generale un concetto che in accademia è molto noto, cioè che si evolve per dissenso, ossia che la scienza avanza per tesi contrapposte. Quando stiamo cercando di capire una cosa che non conosciamo, il metodo scientifico consente di verificare, tra due o più ipotesi, quella che è più probabile. Nei mesi scorsi però ci siamo trovati con una classe politica che ha fatto molta fatica a gestire questa dinamica scientifica. La comunicazione istituzionale è stata molto strana: la quotidiana conferenza stampa delle 18 della Protezione civile presentava dati estratti con una modalità che avrebbe fatto rabbrividire qualunque studente. Anche il mondo giornalistico si è trovato spiazzato e ha mal digerito il fatto che ci fossero tanti galli a cantare e che avessero idee contrapposte. Invece di comprendere che queste sono le normali dinamiche del metodo scientifico, si è innescato un meccanismo di polarizzazione: il Covid è un’influenza o il Covid è la fine del mondo. Perdendo così quella ricca zona grigia dove troviamo le informazioni che ci permettono di capirci qualcosa”.

 

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